E partiamo per caso, per sorte
Su quei gusci di noce affollati
Di scafisti violenti, di umanità nuda
Donne, vecchie e bambini e di morti
Un confuso partire, ignoto l'arrivo
Non più l'ora o del giorno, ma se arrivi e da vivo
Ma nei cuori si allarga un respiro
Che ci spinge a andare ad osare sul mare
La cultura e le pratiche di esclusione, stigmatizzazione, discriminazione dei migranti e delle minoranze rom interessano culture politiche e l’operato di molte Amministrazioni locali. Il razzismo attecchisce facilmente in una parte crescente dell’opinione pubblica, sempre più disorientata di fronte agli effetti delle molteplici crisi. La tentazione di cercare un rifugio nell’egoismo, nella difesa del proprio particulare o di quello di una comunità locale o nazionale è moto diffusa.
Le risorse pubbliche nazionali e comunitarie vengono impiegate in maggior misura sul versante delle attività di gestione e controllo dei flussi migratori, di soccorso in mare e della prima accoglienza, senza parlare dello sciagurato piano di deportazione nei centri in Albania, lasciando in secondo piano gli interventi di inclusione sociale, scolastica e lavorativa di quei milioni di stranieri che vivono nel nostro Paese.
La società interviene, spesso osteggiata, laddove lo Stato e gli Enti locali sono assenti. Quello che invece ancora manca sono le politiche chiamate a governare l’accoglienza dei nuovi arrivati, ma anche i percorsi di partecipazione e di cittadinanza dei residenti di origine straniera giunti in Italia sfuggendo alle bombe, ai conflitti civili, alle dittature e ai disastri ambientali e climatici che dilaniano i loro Paesi.
La realizzazione di tali interventi richiederebbe investimenti pubblici adeguati ma anche in mancanza di risorse economiche aggiuntive, una riallocazione oculata di quelle esistenti potrebbe produrre risultati apprezzabili e capaci di migliorare l’accoglienza e l’inclusione sociale dei cittadini stranieri. E, al tempo stesso, la qualità della vita delle nostre città.
La riforma di un modello che, in virtù della dichiarazione di un’emergenza permanente, ha lasciato troppo spazio a interessi economici, quando non illegali, che certo non assumono come priorità la garanzia dei diritti delle persone accolte e il corretto utilizzo delle risorse pubbliche investite, dovrebbe essere la prima battaglia da condurre per Anci e singoli Sindaci.
Le persone ospitate in strutture d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati finanziate dallo Stato sono ospitate nei Cpa (Centri di prima accoglienza) e nei Cas (Centri d’Accoglienza Straordinari), questi ultimi gestiti dalle Prefetture attraverso convenzioni con organizzazioni private (non profit, ma molte for profit) che spesso sono operatori turistici o organizzazioni prive dell’esperienza necessaria. Questi posti letto si trovano in strutture di accoglienza i cui gestori devono rispettare quanto prescritto dalle convenzioni, ma restituiscono alle Prefetture solo una fattura e delle relazioni periodiche, senza nessun altro controllo definito. Altre persone sono invece ospitate in progetti Sai (Sistemi di accoglienza e integrazione) ex Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati), già Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), gestiti dai Comuni in convenzione con organizzazioni sociali di comprovata esperienza. La rete Sai è coordinata dal Servizio Centrale, che risponde all’Anci. Questa rete garantisce standard uguali in tutta Italia, vi si accede attraverso un bando nazionale (rivolto ai Comuni) e prevede controlli periodici e una rendicontazione dettagliata delle spese.
L’approccio emergenziale ha determinato la prevalenza di strutture d’accoglienza reperite e gestite in regime straordinario. Le principali conseguenze negative della mancanza di programmazione e del ricorso a procedure e strutture straordinarie sono le seguenti.
Innanzitutto affidare l’accoglienza a società e organizzazioni non competenti comporta che nel periodo di ospitalità il percorso di inserimento sociale non sia avviato o sia avviato male. Non è curata la relazione tra gli ospiti e il territorio, con conseguenti conflitti ed episodi di razzismo. La formazione linguistica è per lo più inadeguata. Inoltre, le persone e le famiglie coinvolte hanno diritto al welfare pubblico, al quale provvedono gli Enti locali che, nella maggior parte dei casi, devono fornire servizi senza ricevere risorse aggiuntive e senza poter programmare gli interventi.
Manca, d’altro canto, la costruzione di interventi coordinati di inclusione sociale: l’inserimento non subalterno nel mercato del lavoro (magari facilitando l’accesso all’orientamento, alla formazione e alla qualificazione professionale), ma anche l’inserimento sociale (diritto all’istruzione, alla salute, all’abitazione, all’assistenza sociale), la partecipazione civile e la libera espressione religiosa e culturale (diritto di associazione e di partecipazione), la partecipazione politica (diritto di voto attivo e passivo amministrativo) e, infine, la semplificazione dell’accesso alla cittadinanza formale. In sintesi gli Enti locali dovrebbero assumere come priorità l’obiettivo di facilitare l’inserimento non subalterno né passivo del cittadino straniero nel tessuto sociale, cessando di identificarlo solo come un lavoratore da accogliere o da respingere a seconda dei mutamenti del contesto internazionale e delle fluttuazioni del mercato del lavoro e riconoscendolo come persona che ha diritto, al pari dei cittadini italiani, a vivere bene.
Segregare costa. L’Italia è l’unico Stato europeo ad aver istituzionalizzato il sistema dei “campi nomadi”, scegliendolo come forma ordinaria di intervento per gestire la presenza dei rom e dei sinti. Le risorse pubbliche sono infatti per lo più investite nell’allestimento e nella gestione dei “campi”. Quest’area dedicata ad accogliere solo ed esclusivamente i rom e i sinti in uno spazio periferico, recintato e sorvegliato, favorisce pratiche di controllo e di segregazione “etnica” che portano all’esclusione e al rifiuto delle popolazioni rom e sinte da parte della società altra.
Il sistema dei campi comporta inoltre un enorme dispendio di risorse pubbliche. La negazione del rilascio della tessera sanitaria per Stranieri Temporaneamente Presenti (Stp), il rifiuto dell’iscrizione anagrafica, la previsione di requisiti “oculatamente” restrittivi per accedere ai servizi per l’infanzia o per beneficiare del contributo per i nuovi nati, i controlli quotidiani dei documenti effettuati dalle polizie municipali in forme e con pratiche non esattamente nonviolente, sono solo alcuni esempi di discriminazione istituzionale operata da parte di dipendenti pubblici e subita quotidianamente dalle persone straniere che abitano nelle nostre città. I Comuni ne condividono le responsabilità e possono fare molto per prevenirla.
Il Comune può svolgere un ruolo centrale nella ridefinizione del modello di accoglienza sulla base di una stretta collaborazione tra Enti locali, organizzazioni sociali di tutela, migranti e rifugiati. Si dovrebbe privilegiare l’accoglienza in piccole strutture diffuse sul territorio in modo da evitare la ghettizzazione. Le piccole strutture e l’accoglienza in famiglia potrebbero ad esempio ricevere una premialità nei bandi pubblicati per l’affidamento dei servizi. Tra le opzioni vi è quella di rinunciare alla dismissione degli immobili pubblici per offrire accoglienza a richiedenti asilo e rifugiati o ampliare l’offerta di abitazioni a uso sociale accessibili a tutte le fasce di popolazione, autoctona e non, che ne hanno diritto, affiancandola con centri polifunzionali di orientamento e accompagnamento legale, sociale, scolastico e lavorativo. Ciò consentirebbe di scorporare dai bandi di appalto l’individuazione e la messa in opera delle strutture di accoglienza e di rimuovere almeno uno dei fattori che favoriscono fenomeni di corruzione e l’utilizzo improprio delle risorse pubbliche. La qualità sociale e la sostenibilità dei servizi di accoglienza dovrebbero sostituire i criteri (gare di appalto che premiano le offerte al massimo ribasso e quelle economicamente più vantaggiose) sui quali si fonda l’attuale sistema di affidamento. Il sistema dei bandi di gara dovrebbe prevedere la garanzia degli standard minimi di qualità dei servizi erogati e una rendicontazione dettagliata delle attività svolte. Agli enti gestori dovrebbero essere richiesti, già in fase di gara, la pregressa idoneità delle strutture utilizzate, l’applicazione dei contratti nazionali nei rapporti di lavoro con gli operatori, l’impiego di tutte le figure professionali necessarie, la garanzia di un rapporto equilibrato tra numero di operatori impiegati e numero di richiedenti asilo ospitati. Idonee e dettagliate procedure dovrebbero garantire il rispetto degli obblighi di trasparenza e l’effettiva tracciabilità dei flussi finanziari. Si dovrebbe poi effettuare una sistematica attività di monitoraggio in itinere e di valutazione ex post dei servizi, la creazione di una rete decentrata di servizi di orientamento sociale coordinati tra loro, l’apertura soprattutto nelle periferie di spazi giovanili e di socializzazione poli-culturali che, in collaborazione con gli istituti scolastici, attivino iniziative di lotta alla dispersione scolastica, l’utilizzazione di fondi per orientare e qualificare la formazione professionale.
Per quanto riguarda rom e sinti si investa in progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati alla loro autonomizzazione. Le alternative possibili sono molte: dal sostegno all’inserimento abitativo autonomo in abitazioni ordinarie, all’inserimento in case di edilizia popolare pubblica, all’housing sociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate;
con il diretto coinvolgimento degli interessati, senza il quale nessuno dei percorsi scelti può avere successo.
Benché l’Ufficio Nazionale contro le Discriminazioni (Unar) si sia fatto promotore della costituzione di reti territoriali di contrasto alle discriminazioni e al razzismo, queste faticano a essere operative anche laddove previste da specifici protocolli di intesa stretti con le Regioni e con i Comuni. Attività di informazione e di formazione promosse dall’Ente locale, in collaborazione con le diverse associazioni di migranti e antirazziste, i sindacati e i giuristi democratici, sono auspicabili e potrebbero offrire un contributo utile in tale direzione. In particolare, il Comune si faccia promotore della formazione contro le discriminazioni istituzionali che troppo spesso vengono compiute, anche indirettamente, dal personale che opera nelle Amministrazioni pubbliche locali, in particolare nei servizi amministrativi, di relazione con il pubblico, alla persona e socio-educativi, e nella polizia municipale.
E veniamo da un mondo di guerra e di fame dovunque
E cerchiamo una patria comunque per tornare a sperare
Per vivere ancora e ricominciare
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