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Difesa comune Vs Rearm Europe


Difesa comune Vs Rearm Europe
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In una dichiarazione rilasciata in preparazione del vertice dei socialisti e democratici a Bruxelles, in vista del Consiglio straordinario la segretaria del Pd Elly Schlein si è espressa in questi termini:

“Quella presentata da Von Der Leyen non è la strada che serve all’Europa. All’Unione europea serve la difesa comune, non il riarmo nazionale. Sono due cose molto diverse…”.

Nelle considerazioni che seguono si cercherà di argomentare quali siano le difficoltà oggettive che al momento impediscono di avere l’agognata Difesa Comune Europea”.

Il c.d. Piano Pleven, elaborato dall’allora Primo ministro francese René Pleven, proponeva la fusione degli eserciti dei sei Stati fondatori della CECA in un unico esercito, da porre sotto il controllo di un Ministro della Difesa europeo e di un’autorità politica comune la cui attuazione fu affidata al Trattato istitutivo della Comunità europea della difesa (“CED”), che i sei Stati già fondatori della CECA firmarono a Parigi il 27 maggio 1952. L’organizzazione così istituita avrebbe avuto competenze esclusivamente in materia di difesa e si sarebbe basata su una clausola di difesa reciproca prevista all’art. 2 del suo Trattato istitutivo.

Tale Trattato non entrò mai in vigore, a causa del rigetto della sua ratifica proprio da parte dell’Assemblea francese. La difesa del territorio europeo venne invece delegata alla NATO. La firma del Trattato istituivo dell’Unione europea occidentale avvenuta il 23 ottobre 1954 (“UEO”), quale organizzazione di difesa europea cui prendeva parte anche il Regno Unito - non ancora parte del processo di integrazione economica – non cambiò la dinamica poiché L’UEO si poneva in posizione chiaramente sussidiaria rispetto alla NATO.

Con il Trattato di Maastricht del 1992 viene istituita la politica estera e di sicurezza comune (PESC) al fine di preservare la pace, rafforzare la sicurezza internazionale, promuovere la cooperazione internazionale e sviluppare e consolidare la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Con il Trattato di Amsterdam (1997), vengono per la prima volta introdotti nei Trattati i compiti operativi che l’Unione realizza nell’ambito della PESC, ma sempre attraverso l’UEO. Si tratta dei c.d. Petersberg Task che erano stati definiti in seno all’UEO in un incontro del Consiglio dei Ministri tenutosi al Petersberg Hotel di Bonn nel 1992.

La nascita della cd. Politica europea di sicurezza e difesa (PESD), viene convenzionalmente fatta coincidere con la Dichiarazione congiunta di St. Malò del 1998, resa dal Primo ministro francese Jaques Chirac e dal Primo Ministro britannico Tony Blair, ove si riconosce l’esigenza che l’Unione abbia “la capacità di intraprendere azioni autonome, supportate da forze militari credibili, gli strumenti per decidere di usarle e la relativa preparazione, e ciò allo scopo di far fronte alle crisi militari”, fermi restando il ruolo della NATO e gli impegni di difesa collettiva in tale ambito. Il Trattato di Nizza riorganizza la materia prevedendo, tra l’altro, il sostanziale phasing-out dell’UEO, sciolta nel 2011 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e l’introduzione della clausola di assistenza reciproca in caso di aggressione all’art. 42, par. 7, TUE.

Il Trattato di Lisbona descrive la Politica di Sicurezza e di Difesa Comune (PSDC) e porta a compimento l’assorbimento definitivo di tutti gli aspetti della medesima e della PESD nei Trattati. La PSDC, “costituisce parte integrante” della PESC (art. 42 TUE), più precisamente, ne costituisce il “braccio operativo”, che consente all’Unione di disporre di mezzi civili e militari da impiegare in missioni al suo esterno, con l’obiettivo del mantenimento della pace, della prevenzione dei conflitti e del rafforzamento della sicurezza internazionale (art. 42 TUE).

Il Trattato precisa che “l’esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati membri” (art. 42.1 TUE). Emerge chiaramente come lo sviluppo di capacità operative (civili o militari) sia basata su un’impalcatura normativa piuttosto fragile, l’azione in questo ambito dipendendo dalla volontà individuale degli Stati. E infatti, la PSDC, come la conosciamo oggi, è priva di forze operative comuni, per non parlare di un esercito europeo. Vero è che nel 2007, da un’iniziativa congiunta di alcuni Paesi membri nascevano i cd. Battlegroups (gruppi tattici dell’Unione), costituiti da unità nazionali pre-identificate e certificate (a livello battaglione), che svolgono esercitazioni comuni. Tuttavia, l’impegno degli Stati membri in questo progetto è rimasto molto limitato. Sul piano finanziario, in base a quanto previsto dall’art. 41 TUE, le spese operative derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare e della difesa non possono gravare sul bilancio dell’Unione, come invece avviene per altre iniziative assunte in ambito PESC, ma devono essere sostenute da contributi nazionali. Tale limite ha indotto gli Stati membri a creare dei meccanismi di finanziamento comuni, ma separati dal bilancio UE, al fine di accelerare il sostegno alle azioni dell’Unione aventi implicazioni militari e di difesa. Oggi tale meccanismo prende il nome di Strumento europeo per la pace (European Peace Facility): un portafoglio composto dai contributi nazionali per fornire supporto condiviso alle azioni UE di mantenimento della pace fuori dai suoi confini, sia nella forma delle missioni PSDC aventi implicazioni militari o di difesa, sia nella forma di assistenza alle capacità militari di Paesi terzi. Nel 2017 è stato attivato il meccanismo, introdotto dal Trattato di Lisbona, della cooperazione strutturata permanente (Permanent Structured Cooperation – meglio nota con l’acronimo “PESCO”), che consente agli Stati che vi prendono parte (25 su 27) di intensificare gli sforzi comuni su una serie di ambiti ma il potere decisionale in ambito PESCO è esercitato dal Consiglio all’unanimità degli Stati partecipanti.

Essendo la PSDC parte integrante della PESC, essa ne eredita i principali meccanismi di funzionamento. Tra questi, la regola dell’unanimità delle decisioni è stata confermata dalla riforma di Lisbona. Non decisivo è rimasto il ruolo del Parlamento europeo, il quale è solo consultato.

Sicché, un significativo mutamento dei metodi decisionali relativi ai temi della difesa dovrebbe necessariamente passare attraverso la modifica dei Trattati.

I tempi per imprimere un cambio di passo al processo di integrazione, rivolto al rafforzamento dell’efficacia della PESC-PSDC attraverso l’uso della regola della maggioranza di voto ci paiono maturi pur nella consapevolezza che molte sono le resistenze da superare in alcune cancellerie nazionali, e forse anche altrettanti i limiti di ordine costituzionale interno rispetto a tale ipotesi, soprattutto con riferimento alle decisioni aventi implicazioni militari e di difesa.

Occorre a questo punto chiarire la distinzione tracciata nei Trattati  tra la “graduale definizione” della PSDC, da attuarsi con le modalità e i mezzi di cui sopra si è detto, dalla realizzazione di una vera propria “difesa comune”, che ne costituisce un’evoluzione ulteriore ed eventuale, subordinata all’assunzione di una decisione unanime in tal senso in seno al Consiglio europeo, da approvare poi a livello nazionale in base alla rilevanti disposizioni costituzionali (art. 42, par. 2, TUE). I Trattati ben si guardano dal definire cosa si intenda per “difesa comune”. La sua costruzione resta quindi del tutto rimessa alla “fantasia” degli Stati membri. Si può immaginare che essa implichi, quanto meno, e inter alia, lo sviluppo di una capacità di difesa (un esercito?) comune, o comunque coordinata tra gli Stati membri, secondo un modello più evoluto e più integrato di quello attualmente in essere in base alla prassi delle missioni ex art. 43 TUE. Ciò detto, molti sono gli interrogativi che si aprirebbero sul quomodo dell’iniziativa: l’ipotetico esercito comune sarebbe sostitutivo o integrativo degli eserciti nazionali? Quali sarebbero le istituzioni e gli organi competenti a governarlo e in base a quali regole decisionali? A chi andrebbe imputata la responsabilità giuridica e politica dei suoi atti? Sarebbe possibile immaginare l’Unione europea quale proprietaria degli armamenti (e quindi “cliente” dell’industria europea della difesa), ovvero gli Stati resterebbero gli attori principali, pur coordinandosi, nel rispetto delle competenze previste all’art. 346 TFUE?

Ci si chiede se la difesa comune potrebbe essere incaricata inter alia della difesa territoriale (comune) degli Stati membri da possibili aggressioni, sostituendosi ai o, più probabilmente, integrando i meccanismi di assistenza bilaterale, ad oggi meramente orizzontali, derivanti dalla clausola di assistenza reciproca di cui all’art. 42, par. 7, TUE. Al riguardo, giova ricordare che l’attuale PSDC può impiegare le proprie capacità operative (rectius, quelle fornite dagli Stati membri) solo al suo esterno (art. 42, par. 1, TUE), ed è dubbio che, nel quadro normativo attuale, forze comuni potrebbero essere utilizzate per finalità di difesa del territorio degli Stati membri. Ciò potrebbe probabilmente avvenire consacrando il passaggio della PSDC alla fase dalla cd. “difesa comune”, attraverso le già ricordate procedure formali. Tale sviluppo parrebbe già oggi compatibile con gli obiettivi del processo di integrazione, avuto riguardo all’art. 21, lett. a), TUE, ai sensi del quale l’Unione agisce a livello internazionale al fine di tutelare “la sua sicurezza, la sua indipendenza e la sua integrità”.

Tuttavia questo passaggio non si può fare nell’ambito dell’Unione europea così com’è adesso, per diverse ragioni. Primo, perché le regole decisionali attuali sono organizzate in modo da garantire a ognuno dei 27 paesi della Ue il diritto di veto su ciascuna decisione che incida su aspetti considerati fondamentali per la sovranità nazionale, a cominciare appunto della difesa.

Secondo, perché gli interessi dei 27 paesi nel campo della difesa non coincidono. Banalmente, non si può varare un progetto di difesa europea comune per contrastare la minaccia russa quando alcuni stati, a cominciare dall’Ungheria di Viktor Orban, perseguono deliberatamente un obiettivo di alleanza con Vladimir Putin.

Terzo, perché un progetto di difesa comune europea dovrebbe per forza coinvolgere in qualche forma anche il Regno Unito, che è adesso fuori dalla Ue.

L’unica soluzione possibile sembrerebbe dunque essere quella di una “coalizione dei volenterosi”, un accordo di difesa comune che coinvolga necessariamente almeno i principali paesi europei, magari con la stipula di un nuovo Trattato, che forse, domani, se le condizioni lo consentiranno, potrà essere integrato nella Unione europea nel suo complesso. Come possa essere definito, con quali regole decisionali e meccanismi di controllo democratico, resta tutto da decidere.

È di tutta evidenza quindi che la Presidente della Commissione, non avendo alcun diverso potere in merito non ha potuto fare altro che adottare misure che rientrassero nelle sue facoltà, concretizzate appunto nel Rearm Europe e altro non poteva, per dare un segnale di impegno concreto nella ricerca di quell’autonomia necessaria dopo l’instabilità e l’incertezza determinata dal cambio di strategia di politica estera e di impegno militare adottato dalla nuova amministrazione statunitense e per rispondere all’aggressività militare di Mosca.

Si è dell’avviso quindi che possano rendersi compatibili entrambe le visioni formulate dalla Presidente della Commissione UE e dalla Segretaria del Partito Democratico potendo rappresentare il Rearm Europe un passo decisivo verso la formazione di una Difesa Comune a più lungo periodo date le complessità, proprio come argomentato dal già Presidente del Consiglio dei Ministri Romano Prodi.

Roberto Merico

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