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Servire la Comunità


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“Politica” deriva da “polis”, parola greca che indica l’insieme dei cittadini, la “città”. Politico è dunque ciò che riguarda l’insieme dei cittadini. Chi non si interessa di politica si interessa solo di sé e dei suoi.

Politico corrisponde al  termine latino “Civile”, ossia ciò che riguarda la ‘civitas’ -parola da cui deriva il nostro termine città -, appunto l’insieme dei ‘cives’. I latini inoltre distinguevano gli interessi del civis, del cittadino privato, da quelli della civitas, indicando questi ultimi come “res publica”, il nostro repubblica. La ‘res publica’ - letteralmente, cosa pubblica - è per definizione quindi altro rispetto all’interesse privato.

Chi si candida ad amministrare deve conoscere la realtà che intende “servire” (poiché “amministrare” significa appunto “servire”), e deve aver concepito un progetto a lungo periodo e ad ampio orizzonte che dovrà spiegare al popolo, “parteciparlo”; così come sarà suo interesse “partecipare” (comunicare) i risultati via via raggiunti, o le variazioni apportate al programma: il che significa rendere conto delle proprie azioni e riscontrarne la corrispondenza con il programma o indicare le motivazioni dell’eventuale necessità di modificarlo. La partecipazione deve essere una esigenza degli amministratori prima ancora che dei cittadini – per i quali “partem capere”, prender parte, resta comunque un dovere, oltre a fare crescere nella “competenza” politica –: nasce dalla volontà di trasparenza e apertura, e si esercita sulla gestione delle risorse ‘comuni’. Perché ‘amministrare’ vuol dire gestire risorse (soldi, bilanci): indirizzarle, tesaurizzarle, anche ‘inventarle’, nell’interesse generale. Occupandosi dei grandi temi della vita delle comunità – sanità, scuola, servizi, assetto del territorio, sviluppo delle attività economiche – si esprimono le capacità più rilevanti degli amministratori: che sono quelle di vedere oltre il contingente, l’esistente, per immaginare il futuro consolidando quanto è ancora da ritenere vitale e modificando anche sostanzialmente quanto è ormai incapace di produrre sviluppo.

Non è strettamente indispensabile che gli eletti abbiano delle competenze specifiche, tecniche – che potranno attivare ricorrendo ai consulenti, la loro competenza deve essere “politica”, espressa nella formulazione del programma.

Il bilancio traduce in cifre tutte le attività di governo. Ogni amministrazione dovrebbe prima di tutto “partecipare” i bilanci, anche ‘in corso d’opera’: far sapere quantità e ragioni delle allocazioni di fondi alle diverse voci, delle variazioni, delle realizzazioni.

Gli Amministratori hanno un altro dovere specifico: essere testimoni – direi quasi “testimonial”- della “legalità.

La questione della legalità non è cosa lontana e soprattutto non riguarda “gli altri”. Ogni giorno a noi tutti capita di attraversarla, e spesso di scansarla o far finta di non vederla. Tale atteggiamento culturale si identifica nel farsi da sé la propria legge: decidere da sé quando le tasse sono troppe; quando si devono pagare i contributi ai dipendenti o meno magari con aggiunte in nero alla busta paga; decidere quando e come assumere un collaboratore in modo difforme da quanto previsto per le prestazioni reali richieste; chiedere di poter lavorare ‘al nero’ d’inverno, per non perdere l’indennità di disoccupazione, o andare a lavorare anche quando si avrebbe diritto a stare a casa, per non subire rappresaglie; la menzogna o la complicità nelle mille occasioni quotidiane, lasciar fare quando si subisce una violenza grande o piccola, quando la si vede consumare senza dir niente, quando la si consuma; l’approfittare del proprio vantaggio su chi è in svantaggio; ricattare chi ci ama o terrorizzare chi non può amarci; il casco non abbottonato; le cinture non allacciate; la scuola saltata; usare il proprio potere, piccolo o grande che sia, per coprire la propria pigrizia o la propria malizia; capovolgere il rapporto fra chi deve dare e chi deve ricevere un servizio, sia esso la scuola, la salute, la casa, la sicurezza, una pratica amministrativa; la prevaricazione dei genitori sui figli, immaginati e desiderati come strumenti della propria gratificazione o parafulmine delle proprie frustrazioni; togliere la libertà di decidere della propria vita o di correggerla rompendo la routine o di reindirizzarla sulla strada di speranze nuove; togliere la libertà di donare e di donarsi, prendendo prima e per forza ciò che si desidera senza rispetto dell’altro; rinunciare a vivere pur d’avere denaro; vendere morte per denaro. E molto altro.

A questa cultura tristemente diffusa non si può opporre che l’affermazione solenne e pratica della legalità, unica strada percorribile, a cominciare da casa nostra. Alla scuola, poi, il compito di fornire gli strumenti e le abilità per compiere questo percorso esistenziale; alla comunità adulta il dovere della testimonianza diretta. A tutti l’incombenza ineludibile della sorveglianza e del controllo. Alle Amministrazioni l’incarico di tradurre l’imperativo civile individuale in comportamenti di tutti e per tutti. A ogni Istituzione l’onere di garantire il rispetto delle leggi.

Roberto Merico

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