



C’è un livello silenzioso e continuo nel quale siamo immersi ogni giorno: il dialogo interiore. Un flusso costante di parole, frasi e pensieri dà forma alla nostra esperienza della realtà. Non si tratta solo di ciò che diciamo agli altri, ma soprattutto di ciò che diciamo a noi stessi.
Quel dialogo interno – spesso inconsapevole – influenza il modo in cui sentiamo il corpo, interpretiamo le emozioni e affrontiamo le sfide quotidiane. Le parole non sono mai neutre: ogni parola possiede una vibrazione specifica. Il nostro corpo, sistema vivente e sensibile, percepisce queste frequenze prima ancora che la mente le comprenda razionalmente.
Le parole giudicanti, svalutanti o cariche di paura generano una contrazione profonda, sottile ma reale, mentre quelle di accoglienza, ascolto e presenza attivano stati di apertura e possibilità. Questo è evidente anche a livello neurobiologico: il linguaggio che usiamo può attivare o calmare il nostro sistema nervoso. Frasi come “non ce la farò”, “sono sbagliato” o “non cambierà mai nulla” non solo esprimono un sentire, ma lo rafforzano, alimentando circuiti neurali legati alla paura, alla chiusura e alla rassegnazione. Lo conferma il lavoro della neuroscienziata Lisa Feldman Barrett, secondo cui il cervello non registra la realtà in modo oggettivo, ma la costruisce sulla base delle esperienze passate, delle emozioni e del linguaggio. In pratica, ciò che ci diciamo diventa ciò che vediamo.
Anche l’epigenetica, attraverso gli studi di autori come Bruce Lipton, mostra come l’ambiente in cui viviamo – incluse le emozioni e le parole – influenzi l’espressione genica. Le parole che usiamo non restano nella mente: diventano segnali chimici, impulsi elettrici e variazioni ormonali, modificando il modo in cui le nostre cellule “percepiscono” la realtà e rispondono ad essa.
Sul piano emotivo, le parole attivano o inibiscono il sentire. Un linguaggio interiore pieno di “devo”, “mai” e “sempre” tende a irrigidire, a creare automatismi e a ridurre la possibilità di ascoltare ciò che si muove veramente dentro. Al contrario, un linguaggio che include parole come “posso”, “scelgo” e “sento” apre uno spazio. E quello spazio interiore è la condizione necessaria per il cambiamento.
L’atto di parlare a sé stessi non è un’abitudine da correggere, ma un luogo da incontrare. Portare attenzione a quel linguaggio significa imparare a riconoscere le narrazioni che ci abitano: molte non sono nostre, ma sono state apprese, provenendo dall’infanzia, dalla cultura e da esperienze passate che hanno lasciato traccia.
In un percorso di consapevolezza, il primo passo non è sostituire le parole che ci diciamo, per esempio trasformando “non ho mai tempo per me” in “ho il tempo che mi serve per fare tutto quello che desidero” – come suggerisce a volte la programmazione mentale – ma ascoltare. Accorgersi e diventare testimoni di quel dialogo interiore. Solo da questo spazio di presenza può emergere la possibilità di trasformare il linguaggio in qualcosa di più autentico, radicato e generativo.
Trasformare il proprio linguaggio non è un atto estetico o una tecnica, ma un gesto di cura e un modo per ritrovare il contatto con sé. Ogni parola che ci diciamo – ogni volta che affermiamo “vai bene così” o “puoi stare con ciò che c’è” – diventa un messaggio che il corpo riceve, un’onda che si diffonde nel sistema nervoso, nel battito e nella respirazione.
E lentamente, cambia qualcosa. Non fuori, ma dentro. È lì che la realtà comincia.
Ornella Sari
Naturopata e Counselor Bioenergetico a Milano
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