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Israele vs. Palestina - La guerra Infinita


Israele vs. Palestina - La guerra Infinita
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Verso il 1800 a.C. gli ebrei si stabilirono nella terra di Canaan, la terra promessa loro da Dio secondo la tradizione biblica (quella terra che duemila anni dopo, nel II secolo d.C., i romani denominarono "Palestina"), dalla quale migrarono per via di persecuzioni per ritornarvi attorno al 1200 a.C. e nuovamente allontanarsi a cusa delle persecuzioni romane. La c.d. grande diaspora ovvero l'emigrazione verso il Nord Africa e l'Europa ebbe il suo epilogo intorno al 700 d.C..

Alla fine del XIX secolo, sulla spinta dei nazionalismi europei e in risposta all’acuirsi dell’antisemitismo, il giornalista ungherese-austriaco Theodor Herzl elaborò l’ideologia del sionismo, un movimento politico che rivendicava il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, ipotizzando la Palestina e l’Argentina come possibili destinazioni per l’insediamento dei coloni. Fu la connessione culturale e religiosa con Gerusalemme che spinse il movimento sionista a optare infine per la Palestina, all’epoca definita comunemente come l’area geografica delimitata a ovest dal Mar Mediterraneo e a est dal fiume Giordano. Anche se la migrazione di ebrei europei verso questo territorio era cominciata già alla fine dell’800, il fenomeno divenne più consistente con la fine della Prima guerra mondiale, dopo che gli inglesi riuscirono a sottrarlo all’Impero ottomano. Le rivendicazioni del movimento sionista trassero forza dalla “Dichiarazione Balfour”, ovvero il contenuto di una lettera che nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour scrisse a lord Lionel Walter Rothschild, sionista e membro di spicco della comunità ebraica inglese, nella quale il governo di Sua Maestà affermava il suo supporto alla creazione di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina. La lettera, che nascondeva anche interessi strategici, fu scritta in un periodo in cui alcuni sostenevano che gli ebrei dovessero https://www.ispionline.it/wp-content/uploads/2023/10/mandati-1024x1024.jpgtornare ad abitare in Terra Santa.

Alla fine del conflitto, i paesi vincitori decisero di spartirsi le province arabe dell’Impero ottomano. Alla Conferenza di Sanremo del 1920 il territorio della Palestina, assieme a quelli degli attuali Iraq e Giordaniafu affidato alla Gran Bretagna, mentre i territori corrispondenti all’attuale Siria e Libano passarono sotto il controllo della Francia. La presenza di Londra e Parigi in questa regione fu poi istituzionalizzata dalla Società delle Nazioni – nucleo di quelle che poi saranno le Nazioni Unite – con la creazione dei Mandati. Si trattava di un sistema con cui le potenze coloniali si impegnavano ad amministrare questi territori e ad accompagnarli nel percorso verso l’indipendenza. Ma il conferimento del Mandato di Palestina alla Gran Bretagna, potenza che aveva dichiarato pubblicamente di voler facilitare l’immigrazione degli ebrei europei in quel territorio, fu mal accolta dalla popolazione locale. Gli anni del mandato furono infatti segnati dallo scoppio di regolari moti di protesta, spesso caratterizzati da episodi di violenza contro gli inglesi e la comunità ebraica, rinvigorita anno dopo anno dall’arrivo di nuovi migranti. Questi finirono per cambiare l’assetto demografico della Palestina: se nel 1922 gli ebrei rappresentavano l’11% della popolazione, il loro numero raggiunse il 32% nel 1947 (e questo malgrado la crescita della popolazione araba, raddoppiata nello stesso periodo).

https://www.ispionline.it/wp-content/uploads/2023/04/spiegone-grafica-3-1-1024x1024.jpgIl secondo conflitto mondiale ha rappresentato una netta cesura per il sistema coloniale inglese e per la Palestina. Spinta dalle necessità economiche della ricostruzione post-bellica e dalla complessità della situazione sul campo, Londra decise di rimettere il mandato alle Nazioni Unite, che intanto avevano sostituito la Società delle Nazioni, e di lasciare a loro la decisione sul futuro della regione. Nel novembre 1947, l’Assemblea generale dell’ONU approvò una risoluzione (la numero 181) che prevedeva la spartizione della Palestina in due statiuno ebraico e uno arabo, e che affidava Gerusalemme a una giurisdizione internazionale. Questa decisione fu accolta positivamente dalla comunità ebraica ma rigettata da quella araba, che dopo essersi opposta per anni all’immigrazione di massa di ebrei europei, rifiutava la possibilità che questi ottenessero uno stato indipendente. A quel punto le relazioni tra ebrei e arabi degenerarono, sfociando dapprima in guerriglia e poi, con la fine ufficiale del mandato e la partenza degli inglesi, in un vero e proprio conflitto armato. Il 15 maggio 1948, a seguito della Dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele, gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq decisero di attaccare, dando il via alla prima guerra arabo-israeliana.

Al termine del conflitto, che si risolse nel 1949 con la sconfitta degli eserciti arabi, i confini del neonato stato di Israele comprendevano circa il 78% del territorio della Palestina mandataria. Rimanevano fuori dal suo controllo la Cisgiordania (o “West Bank”, dato che si trova a ovest del fiume giordano) e la cosiddetta Striscia di Gaza, occupate rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto. Durante il conflitto, inoltre, circa 700mila palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case, in parte per paura della guerra e in parte perché minacciati dall’esercito israeliano. Quest’esodo forzato (conosciuto in arabo come Al-Nakbah, la catastrofe) è all’origine della questione dei rifugiati palestinesi, uno dei principali punti irrisolti del conflitto.

Nei tre decenni successivi alla sua fondazione, il rapporto tra Israele e gli stati arabi rimase profondamente conflittuale, e a quella del 1948-49 seguirono altre guerre, contestualmente alle quali anche centinaia di migliaia di ebrei che vivevano nei paesi arabi furono costretti a emigrare. Nel 1956 Israele oltrepassò poi il confine egiziano con il sostegno di Francia e Regno Unito, facendo esplodere la cosiddetta crisi di Suez; nel 1967 si combattè la “Guerra dei sei giorni”, appunto perché nell’arco di meno di una settimana l’esercito israeliano riuscì a sconfiggere quelli dell’Egitto, Giordania e Siria. La vittoria permise a Israele di occupare nuovi territori, tra cui la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, inclusa quella parte di Gerusalemme che era stata controllata fino ad allora dai giordani.

È appunto la sconfitta degli eserciti arabi nel 1967 a spingere i palestinesi verso un maggiore attivismo politico. Quelli tra la fine dei ’60 e l’inizio degli ’80 furono infatti anni caratterizzati dall’ascesa di gruppi e partiti palestinesi che con mezzi politici e militari cercavano di dare risposta alle proprie aspirazioni nazionali. Negli anni ’60 la maggior parte di questi gruppi confluì nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una struttura che voleva rappresentare un cappello politico per i partiti e gruppi armati palestinesi attivi nei Territori e nella diaspora. L’OLP divenne così il principale megafono delle istanze palestinesi nel mondo. Tuttavia, nel 1982 i quadri dell’organizzazione furono costretti ad abbandonare il Libano, una delle principali destinazioni per i profughi palestinesi, che sarà dilaniato dalla guerra civile proprio in quel decennio. L’OLP trovò asilo in Tunisia, troppo distante dai Territori. Questo finì per segnare il declino dell’organizzazione. Intanto, nel 1973, Israele e vicini arabi si affrontarono di nuovo nella guerra dello Yom Kippur, ricordata dagli arabi come guerra di Ramadan o semplicemente come guerra israelo-araba del ’73. Principali protagonisti dello scontro furono l’Egitto, poiché Israele aveva occupato la penisola del Sinai, e la Siria. L’esito fu piuttosto interlocutorio, ma portò alla restituzione del Sinai al Cairo e un ulteriore espansione del controllo israeliano sulle alture del Golan, occupate nel 1967.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, i rapporti tra i due principali contendenti iniziarono però a normalizzarsi, grazie agli accordi di Camp David. L'Egitto divenne così il primo Paese arabo a riconoscere Israele, ma il trattato di pace non fu ben visto da tutti. Il presidente Sadat, che aveva iniziato la guerra del '73 per riconquistare la penisola del Sinai e "ristabilire i diritti del popolo palestinese", fu bollato come un traditore e ucciso da alcuni integralisti islamici. Il suo Paese venne poi espulso dalla Lega araba.

Esasperati dal mancato riconoscimento delle proprie aspirazioni nazionali, nel 1987 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania cominciarono una serie di proteste contro l’occupazione israeliana. Questi atti assunsero presto le dimensioni di una vera e propria sollevazione popolare – la Prima “Intifada delle pietre” –, i manifestanti iniziarono a lanciare sassi e molotov contro le forze dell’ordine israeliane, che si protrasse fino al 1993 e portò alla morte di più di 1900 palestinesi e di 200 israeliani.

Ufficialmente, il casus belli fu un incidente in cui un autotreno delle forze militari israeliane colpì due furgoni che trasportavano operai di Gaza a Jabaliyya, un campo profughi di 60mila persone, uccidendo quattro palestinesi. Dietro la sommossa, si nascondeva però un crescente malcontento dovuto anche all’occupazione da parte di Israele dei territori conquistati con la guerra del 1967.

È in questi anni di proteste e di duri scontri che nacque il Movimento della Resistenza Islamica (Hamas), un’organizzazione di stampo islamista, nata da una costola della Fratellanza Musulmana e caratterizzata fin da subito dalla sua intransigenza nei confronti di Israele.È negli anni dell’intifada che le posizioni delle leadership palestinese e israeliana si avvicinano per la prima volta.

Tra il 1993 e il 1995 vennero siglati gli Accordi di Oslo che, sulla base della soluzione a due stati, avrebbero dovuto rappresentare il primo passo verso la costruzione di uno stato palestinese indipendente. Si deve a questi accordi la divisione dei Territori palestinesi in tre aree (A, B e C) e la creazione di un’amministrazione autonoma, l’Autorità nazionale palestinese (ANP), che sull’area A e B esercitava un certo grado di sovranità. L’ascesa per la prima volta al governo in Israele di Netanyahu nel 1996, assieme ad altri fattori, finì però per bloccare i negoziati sulle questioni lasciate aperte dagli Accordi e, di conseguenza, per assestare un duro colpo al processo di pace.

Lo stallo nei negoziati contribuì a infiammare nuovamente i Territori palestinesi tra il 2000 e il 2005 con lo scoppio della Seconda Intifada. Rispetto alla prima, questa fu molto più violenta e portò alla morte di quasi cinquemila palestinesi e più di mille israeliani. Nel 2002, nel pieno della sollevazione popolare palestinese, Israele cominciò la costruzione di un muro di separazione tra i propri territori e quelli palestinesi in Cisgiordania.

L’obiettivo dichiarato era quello di controllare gli spostamenti per impedire l’organizzazione di attacchi terroristici a danno della popolazione israeliana. Il tracciato del muro non rispettava però la Linea Verde (stabilita nel 1949 fra Israele e il regno di Giordania), discostandosi in alcuni casi di decine di chilometri. Secondo le autorità israeliane lo scopo del muro era quello di contribuire alla sicurezza del paese. La sua costruzione ha avuto, e continua ad avere, un impatto negativo sulla vita dei palestinesi. Secondo un report delle Nazioni Unite “il muro separa fra di loro comunità e impedisce l’accesso delle persone ai servizi nonché a strutture religiose, culturali e ai mezzi di sussistenza”. Da allora la situazione nei Territori palestinesi non ha fatto altro che peggiorare. Israele continua a mantenere una consistente presenza militare in Cisgiordania, dove negli ultimi vent’anni ha anche accelerato la sua politica di espansione delle colonie, città e insediamenti israeliani in territorio palestinese, ritenuti illegali dalla comunità internazionale.

https://www.ispionline.it/wp-content/uploads/2023/04/spiegone-grafica-6-1024x1024.jpgA dispetto del peggioramento della situazione nei Territori, negli ultimi anni i rapporti tra Israele e gli altri paesi della regione sono sensibilmente migliorati. Risale al 2020, infatti, la firma dei cosiddetti Accordi di Abramo, ovvero gli accordi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco (oltre che il Sudan). Negli ultimi, l’interscambio tra questi paesi e Israele è cresciuto notevolmente, ma una soluzione al conflitto israelo-palestinese, che le parti nell’accordo si impegnavano a promuovere, rimane ancora lontana. La criminale escalation del conflitto è dei nostri giorni.

Roberto Merico

 

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