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Perché ci affezioniamo ai personaggi delle serie TV?


Perché ci affezioniamo ai personaggi delle serie TV?
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Dopo aver trascorso ore e ore in compagnia di una serie tv, dei suoi personaggi e dei suoi cliché, ci sentiamo a tal punto legati da poter parlare di un meccanismo di legame e affezione, spiegabili attraverso una teoria tra psicologia e serie tv.

 

Una serie tv, così come ogni opera creativa, è per lo più finzione. Come una realtà parallela e virtuale, apre uno spaccato da cui possiamo affacciarci su una vita estranea.

Cos’è che ci permette di legare con i personaggi, partecipare alle loro vite, utilizzarli come modelli ideali? È sufficiente una buona storia? Assolutamente no.

Secondo molte ricerche di psicologia e serie tv, esistono dei meccanismi che spiegano la nostra tendenza a guardare, e a volte consumare, storie ed episodi.

Robert Hawkins, in uno studio del 1977 (“The dimensional structure of children’s perceptions of television reality”) introduce il concetto di Magic Window, o finestra magica. L’illusione subdola che si crea nello spettatore che porta a credere che ciò che vede non sia finzione, ma una finestra affacciata su un’altra realtà, credibile e concreta. Questa esperienza viene definita “realtà percepita”, e richiede alcuni fattori:

  • gli intrecci, le storie e le emozioni, devono rispettare delle regole credibili, umane e verosimili
  • il contenuto deve avere, o dare la sensazione, di utilità: qualcosa che lo spettatore ritiene di poter apprendere, innocuamente e senza rischi, e poter spendere nella vita reale
  • la possibilità di identificarsi con i personaggi, prenderli come modelli di vita o per vivere emozioni ed esperienze attraverso lo schermo

Il terzo punto porta a conseguenze e a processi importanti. Illustriamone alcuni.

Perché la serie tv e non il cinema?

Un film si consuma in due, tre ore. Una serie tv ci accompagna a volte per lunghi periodi, da pochi giorni, a mesi interi. Questo potrebbe essere sufficiente a spiegare il perché nel caso del cinema ci soffermiamo al messaggio dell’opera, mentre nel caso delle serie tv sviluppiamo un’affezione e una dipendenza.

La serie tv diventa un rituale, e inizia far parte della nostra vita quotidiana, così come i suoi personaggi. Si va a fondo nella vita dei personaggi, esplorando ogni loro momento, successo o mancanza, molto più di quanto accade nel cinema.

Inoltre, c’è da aggiungere, che le serie tv, soprattutto da qualche anno a questa parte, sono create in modo tale da catturare lo spettatore. Sono ricche, a volte sature, di espedienti, momenti di suspense o di tensione, di storie interrotte, con il solo scopo di tenere lo spettatore-consumatore incollato allo schermo. Il cinema risente meno di questa necessità, in quanto non richiede un’attenzione così lunga nel tempo.

Psicologia e serie tv: i processi in gioco

Identificazione e proiezione

Tralasciando tecnicismi e approfondimenti eccessivi, diciamo solo che identificazione e proiezione sono due dei meccanismi psicologici alla base della psicologia, e con cui ci rapportiamo al mondo.

Mentre guardiamo una serie tv, inevitabilmente creiamo un legame con i personaggi. Ci identifichiamo con loro e partecipiamo coinvolti alle loro vite, o proiettiamo su di loro nostre idee, sentimenti o aspettative, prendiamo in prestito i loro slogan per citarli nella nostra vita.

Perse e Rubin, nella loro ricerca “Attribution in social and parasocial relationships” del 1989, dimostrano come uno spettatore giudica i personaggi di una serie, quindi finzione, con gli stessi criteri, la stessa enfasi e la stessa partecipazione con cui giudicano persone della loro vita reale.

Ci leghiamo ai sentimenti, alle esperienze e agli obiettivi dell’altro. Per questo motivo è difficile sviluppare questo legame con altri personaggi della tv, come star sportive, o giornalisti, in quanto manca il contenuto umano.

Questo processo è così forte da sviluppare qualcosa di simile a un legame di amicizia, come se fossero parte della loro realtà. Secondo uno studio di James Potter del 1988 (“Perceived reality in television effects research”), i partecipanti erano così vicini ai personaggi, da avere una forte empatia che li portava a soffrire o gioire con loro.

E quando un personaggio viene a mancare? Beh, è un vero e proprio lutto.

Il lutto

Finisce una serie, il nostro personaggio preferito cambia, non ci piace più, o muore.

Secondo uno studio di Jonathan Cohen (“Parasocial Breakups”), la reazione a una perdita “parasociale”, cioè fittizia, è quasi paragonabile a una perdita reale.

Ciò che cambia, è il nostro modo di reagire. Secondo lo studio infatti, tutti i partecipanti avevano reazioni dovute a rabbia, impotenza e tristezza. Le tre reazioni principali sono: trovare un’altra serie con un personaggio, o una storia, simile; trovare un personaggio del tutto nuovo; rivedere in modo ossessivo gli episodi. C’è quindi una forte delusione e un meccanismo di negazione, come un vero e proprio lutto.

Dipendenza

Da questi presupposti forse possiamo comprendere meglio il fenomeno del Binge Watching.

Un fenomeno sottovalutato, ma che ha i tratti di una vera e propria dipendenza patologica. Il distacco dalla realtà, il consumo ossessivo e la ricerca di un continuo stato di appagamento irreale, sono solo alcune delle caratteristiche in comune a ogni altra dipendenza.

Il pericolo non solo è in ciò che procura, ma in ciò che toglie: tempo, sonno, vita sociale nei casi più gravi. L’effetto è un circolo vizioso in cui è la nostra stessa dipendenza a creare i presupposti per confermarla, cioè solitudine, insoddisfazione e isolamento.

Ovviamente parliamo del caso estremo. In termini più contenuti, dovremmo essere in grado di accettare la perdita, la fine, e tornare alla nostra vita quotidiana.

Noi di Psicologi in Rete ci chiediamo: potrebbero le serie tv rientrare, in futuro, tra le dipendenze citate all'interno del DSM?

A voi le conclusioni.

 

Fonte: virgo29

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I commenti degli utenti:

Corporis

Cari psicologi in rete,

i Vostri articoli trasmettono passione e vivacità non solo per le tematiche, soprattutto per come sono esposti.

Noto un certo parallelismo con l'argomento di apparire sui social ovvero di generare una realtà che spesso si distacca dalla vera quotidianità.

A mio pare, non da specialista, ma da semplice lettore dell'argomento mi sembra di poter cogliere su entrambi gli articoli il desiderio di poter avere una schermatura che permette all'individuo di difindersi dalle critiche della normalità che invece sarebbe bello riscoprire accreditando l'emittente della critica evitando di abilitare chiunque a scalfire la propria personalità.

Vi chiedo: come si può trovare un codice coerente per discernere dal qualunquismo e dare un giusto apprezzamento al parere di valore?

Grazie per la Vostra risposta e buone pubblicazioni


Psicologi in rete

Ciao Corporis, grazie per le belle parole spese nei nostri confronti. 
Entrambi gli articoli, come da te detto, vertono sullo stesso filone teorico: le dipendenze.

Quando ci confrontiamo con un argomento clinico ci piace, quanto più possibile, rapportarlo alla pratica quotidiana (senza, ovviamente, voler rendere patologica ogni azione quotidiana). 
Secondo quanto emerso in un brainstorming tra colleghi risulta come oggi le dipendenze siano sempre in continuo aggiornamento. Le vecchie dipendenze, da abuso di sostanze ad esempio, si stanno mescolando sempre più con le new addiction che pur essendo diverse nei modi causano gli stessi effetti di astinenza ed irritabilità.

Riferendoci alla tua domanda secondo noi il vero valore va ricerca nella soggettività dei singoli: la scala dei valori, oltre quella generica che tutti conosciamo, molto spesso viene declinata ancora più nel particolare dai singoli in base ai propri contesti di vita. 
Grazie ancora!




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